9. A CHARLOTTE STEARNS ELIOT
Londra, 26 ottobre 1923
Mamma carissima, mi scrivi che La terra desolata è il poema di un uomo disperato. Sicuramente lo è, ma non pensare che il mio avvilimento dipenda da questioni unicamente private. Un conflitto mondiale e l’incertezza del dopoguerra hanno alimentato in me uno stato d’angoscia.
Tu eri poetessa, o meglio scrivevi poesie quasi tutte destinate agli amici, a parte qualche collaborazione per i giornali: le raccoglievi in un album, come si raccolgono i fiori secchi.
Non avendo avuto riconoscimenti iniziali, la frustrazione dei tuoi talenti letterari è andata ad alimentare la tua ambizione per quelli di tuo figlio.
Se sono un poeta, lo devo a te, che mi hai dato il dono di rappresentare in modo oggettivo il reale movimento del pensiero, che non si presenta nella mente secondo modalità logico-razionali, ma come intrecci di frammenti, accostamenti apparentemente alogici, associazioni: sei tu che mi hai insegnato che la poesia è l’equivalente del pensiero emotivo.
Ecco dunque il mio poema, revisionato da Pound, che l’ha ridotto di un bel po’. Quello di Ez è stato un riuscito taglio cesareo e la dedica dell’opera a lui è del tutto meritata.
Ma perché ho la sensazione che tu, proprio tu, da cui mi sono sempre sentito compreso, non capisca la mia poesia?
È vero che il mio poema è una sconsolata ammissione del trionfo dell’aridità e del vuoto dentro cui l’umanità galleggia.
Ma qualche spiegazione in più te la devo e te la darò. Solo che un poema, una volta che il poeta l’ha composto, è di chi lo legge: la sua interpretazione è il suo dono all’artista che vede qualcos’altro fiorire dai suoi versi.
Mi scrivi che il mio poema è fatto di troppi frammenti eterogenei, né coesi né coerenti, di tante voci narranti, a metà tra il racconto in prosa e un dramma teatrale e che,
dopo che ti sei abituata a tutte le voci narranti, cerchi anche di capire di chi siano e che significato abbiano le loro parole.
Solo Tiresia non si può non riconoscere, la sua vicenda è fin troppo nota.
Io volevo dare l’immagine di un mondo caotico e disarmonico, ma c’è una trama nel mio poema, un filo conduttore, un tema centrale, un MITO.
Leggendo gli ultimi capitoli dell’Ulisse, spiegavo a Joyce che, pur ammirando senza riserve la sua opera, avrei preferito per il mio bene non averla letta (essendo divorato dall’invidia!).
In una recensione di questo capolavoro, osservavo che la grande concezione di Joyce era stata usare il mito come metodo per riportare ordine nel mondo contemporaneo. Il metodo mitico prevede che tutte le parti di cui l’opera si compone siano tenute insieme da un racconto archetipo nascosto che collega i vari frammenti.
I passaggi non sono interamente visibili, ma io ti condurrò per mano nella mia terra desolata.
L’Ulisse di Joyce, che descrivevo come l’espressione più importante dell’epoca presente, ha sollecitato la mia personale ambizione di creare in poesia qualcosa di analogo e di riuscire a dare vita a quella grande opera verso la quale sembrava proiettarsi tutta la mia poesia precedente.
Devo alle mie fonti antropologiche (Dal rito al romanzo di Jessie Weston a Il ramo d’oro di James Frazer) la costruzione del mio mito, che è la leggenda del Re pescatore, personaggio che appare in alcune opere del ciclo arturiano. È un re molto malato e l’infermità di cui soffre si ripercuote sul suo regno, che si è trasformato in un luogo deserto e devastato, la terra guasta – desolata – appunto.
Dal tema principale si irradiano altri percorsi, ma tutti legati alla sterilità, che non riguarda solo la terra, ma anche l’uomo, che non sa di essere vivo e vive come un morto.
Solo chi è stato vivo, può dire di essere morto.
L’amore si è svuotato di qualsiasi sentimento e si riduce a sesso infecondo: a libidine meccanica o, peggio ancora, a stupro.
Altro filo è dato dalla fine di ogni speranza nel progresso, dalla consapevolezza del declino della nostra civiltà.
Ma il presente è peggiore del passato. Se il passato è un insieme di frammenti che ancora splendono di significato e sono degni di essere citati, il presente è solo un immenso panorama di futilità e di anarchia.
Il presente ha dimenticato i valori tradizionali della cultura occidentale e orientale: l’humanitas, la compassione, il dominio di sé, la sublimazione delle pulsioni in una forma, e si è abbandonata agli impulsi primordiali distruttivi: il desiderio di profitto e quello sessuale.
Un altro filo del poema è la nevrosi moderna, che genera incomunicabilità e incomprensione tra gli individui, soprattutto tre le coppie, prive di alcuna linfa vitale: del tutto disgregate.
Le donne che escono fuori dal mio poema ti appaiono, e non sbagli, tutte provate da abusi e violenza oppure nevrotiche o squallide.
Sarà che sono attratto dalla debolezza della donna… e più è in basso, e più la sento a me vicina.
Mi scrivi che non vedi uno sviluppo organico e lineare e che non distingui i tempi e i luoghi del poema: ti trovi davanti a un tempo storico e geografico stravolti.
Ma se la storia è ripetizione ciclica di insensatezza e brutalità, io la racconto come la percepisco: barbara, volgare, alienante, disarmonica.
La storia lineare e progressiva si è ridotta a mito perché è fallita: è diventata eterno ritorno di infertilità e di mancanza di senso.
I miei valori, mamma, quelli ho imparato dalla mia famiglia e dai miei studi, quelli che il passato portava con sé nell’opera dei grandi maestri e delle grandi religioni, sono ignorati dalla società di oggi.
L’uomo ha perso l’armonia e l’unità con l’ambiente naturale e, anche se i cicli delle stagioni si succedono, quando la primavera ritorna non c’è nessun risveglio nello spirito dell’uomo.
La tecnologia progredisce solo per l’alienazione del mondo e non per il suo progresso. La città è popolata da fantasmi che tutte le mattine vanno al lavoro senza guardare il cielo. Citta irreali.
Suoni nell’aria, scoppi di armi, e lamenti materni. La sofferenza inflitta agli inermi non ha fine.
Torri che crollano
Gerusalemme Atene Alessandria
Vienna Londra
Irreali.
E chissà che un giorno le torri non crollino anche a New York!
Con tutti questi fili ho tessuto la tela di un poema, dove il poeta, che ha perso l’antico ruolo di guida della società, è solo il custode del passato e il critico del presente.
Tante voci della migliore cultura che ho appresso, da quella occidentale a quella orientale, mi tambureggiavano nelle orecchie mentre componevo: ma queste voci io le ho interiorizzate e le ho piegate alla mia centrale visione del vuoto e della rovina.
Ma tu non sei tanto interessata a scoprire i riferimenti a Dante o Shakespeare, a Baudelaire o Sant’Agostino, vuoi essere in grado di seguire ogni passaggio del poema e afferrare tutti i fili per intrecciarli a modo tuo.
Provo a ricreare con te l’ordine e la coerenza con cui ho cercato di rendere la mia visione del nulla.
Non sono immediati per le mie scelte di una rappresentazione stilistica e di un montaggio, che desse l’idea del mondo caotico in cui viviamo, ma io racconto un mito e, alla fine, tutto torna.
Comincerò, dunque.
I La sepoltura dei morti
Il tema è indubbiamente la morte.
Ma la natura che ogni anno si rinnova fa male allo spirito, che non ce la fa a rinascere, perché è morto dentro.
Aprile è il mese più crudele perché ti sbatte in faccia l’imperitura ciclicità delle stagioni, quando, invece, uno vorrebbe perpetuare il sonno dell’inverno, senza memoria né desideri: uno stato letargico e indolore.
Aprile è il mese più crudele, genera
Lillà dalla terra morta (…)
L’inverno ci mantenne al caldo, coprì
Con immemore neve la terra, nutrì
Con secchi tuberi una vita misera.
Fino a qui ci sei…
Siamo in Inghilterra, presumi, in una primavera degli anni ’20, ma poi siamo improvvisamente sbalzati nell’estate, sotto uno scroscio di pioggia, anche se poi spunta il sole, tra colonnati, parchi e giardini frequentati dall’aristocrazia mitteleuropea.
La cugina dell’arciduca Rodolfo, erede al trono d’Austria, racconta al suo invisibile interlocutore, delle gite in slitta con il cugino e della sua paura.
Di cosa? E ipotizzi: della velocità di lanciarsi tra le montagne o di qualche azione perversa del cugino che Marie è costretta a subire?
La poesia è suggestione. È quello che ci viene in mente, che non è necessariamente quello che avevo in testa io.
Non ti è chiaro che c’entra la cugina dell’arciduca, che, anche se lituana, afferma di essere una vera tedesca.
Marie, la voce parlante, rappresenta quell’aristocrazia senza radici e senza stato che è dispersa per l’Europa dopo il crollo degli imperi alla fine della Grande guerra.
Siamo a Monaco, durante la Repubblica di Weimar, dove è arrivata Marie dalla Lituania: per essere accettata proclama di essere tedesca.
Lo Stambergersee, citato nel testo, è il lago dove si è affogato il principe Ludwig II di Baviera.
L’arciduca, con cui la cugina Marie fa dei giochi “paurosi” sulla slitta, è famoso per il suo suicidio con l’amante nel castello di Mayerling.
Dopo che il tema della morte e della guerra è ribadito con questi puntuali riferimenti, ecco che la mancanza delle radici, perse dalla contessa Marie, è ripreso dalla voce minacciosa di un profeta:
Quali sono le radici che s’afferrano,
quali i rami che crescono
Da queste macerie di pietra?
Esso annuncia che siamo circondati da cumuli di immagini infrante (abbiamo adorato troppo i beni materiali!) e che ci mostrerà la paura della morte in una manciata di polvere.
Dall’invettiva del profeta vetero-testamentario, il poema comincia a disseminarsi di macerie, di pietre e di alberi morti, di terra arida e screpolata.
L’unica ombra è sotto la roccia rossa. Solo sotto quell’ombra – vuoi leggere la Chiesa? O in senso più lato la spiritualità? – solo là sotto c’è un riparo al sole che batte implacabile.
C’è solo ombra sotto questa roccia rossa,
(Venite all’ombra di questa roccia rossa)
Nel segmento successivo, come pure in quelli seguenti, non siamo più in una città biblica devastata dalla carestia e dalla siccità, ma a Londra, ai tempi nostri.
Benché introdotta dai versi di Wagner del Tristano e Isotta, che è l’apice dell’amore travolgente, la sequenza della ragazza dei giacinti (anche qui l’allusione alla rinascita della primavera che non corrisponde però a quella dello spirito) è un dipinto cristallizzato dalla paralisi emotiva: il ragazzo non si decide a parlare alla ragazza, anche se un anno fa le aveva regalato i giacinti, facendole nascere la speranza di amarla.
Io non potevo
Parlare, mi si annebbiavano gli occhi, non ero
Né vivo né morto, e non sapevo nulla, mentre guardavo il silenzio,
Il cuore della luce.
Nel fotogramma successivo siamo a casa di una chiaroveggente famosa, Madame Sosostris, con un diabolico mazzo di carte che legge e con il quale predice la morte a chi l’ha interpellata:
Ecco qui, disse,
La vostra carta, il Marinaio Fenicio Annegato (…)
Temete la morte per acqua.
Madame Sosotris è l’equivalente svilito dell’antica Sibilla.
La prima sezione si chiude con l’immagine della città irreale e dell’alienazione del lavoro: tra una nebbia invernale, una gran folla di uomini già morti – perché non sono mai stati vivi – attraversa il London Bridge per andare a lavorare.
I loro occhi sono fissi ai loro piedi. Affluiscono verso la City come in un girone infernale. E Dante c’è, eccome se c’è.
Ma d’un tratto uno di questi morti ne riconosce un altro: un soldato con cui ha combattuto a Milazzo, una delle battaglie della Prima guerra punica. E lo apostrofa in mezzo alla folla:
Stetson!
Tu che eri con me, sulle navi a Milazzo!
Questo ti è sembrato assurdo.
Ma io non voglio raccontare una storia, ma usare la storia per costruirne un’altra, atemporale, mitica.
Stetson, al suo commilitone, chiede se il cadavere che ha seppellito nel suo giardino (un altro commilitone, o forse suo fratello, morto in battaglia) ha cominciato a germogliare e se quest’anno fiorirà.
Quel cadavere che l’anno scorso piantasti nel giardino,
Ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest’anno?
Oppure il gelo improvviso ne ha danneggiato l’aiola?
Oh, tieni il Cane a distanza, che è amico dell’uomo,
Se non vuoi che con le unghie, di nuovo, lo metta allo scoperto!
Con quest’augurio di non fertilità, di interruzione dello spontaneo germogliare della vita dal cadavere sepolto dal soldato, si chiude la prima sezione – La sepoltura dei morti – quasi in un cerchio.
II Una partita a scacchi
In questa sezione ci sono due sequenze contrapposte: come il bianco e il nero della scacchiera.
Ci sono due drammi, in cui il dolore è trasversale ossia colpisce sia ricchi che poveri.
Una coppia altolocata vive in una dimora sontuosa descritta minuziosamente.
L’altra scena si svolge in un pub, un ambiente squallido e popolare.
La sciatteria è incollata su Lil, una delle due amiche, le quali usano un linguaggio colloquiale e non forbito, come la coppia che vive tra i candelabri a sette braccia, tra profumi conturbanti, dove sull’antico camino era dipinta,
Come se una finestra si aprisse sulla scena silvana,
La metamorfosi di Filomela, dal re barbaro
Così brutalmente forzata; eppure là l’usignolo
Empiva tutto il deserto con voce inviolabile
E ancora ella gemeva, e ancora il mondo prosegue,
Giag Giag a orecchi sporchi.
Ecco la prima allusione al sesso, qui vissuto sotto forma di stupro.
La povera Filomela, dipinta sul camino della coppia ricca, dalla violenza sessuale e dal taglio della lingua, per il suo silenzio, da parte del suo stupratore, “guadagna”, grazie alla pietà degli dei, una metamorfosi in usignolo e, anche se lei geme e geme, il mondo prosegue ancora.
È proprio vero che non è la ricchezza a fare la felicità, perché la coppia nella casa ricca è separata da una distanza siderale.
Lei è molto nevrotica: Ho i nervi a pezzi stasera. Sì, a pezzi. Resta con me.
Parlami. Perché non parli mai? Parla.
A che stai pensando? Pensando a cosa? A cosa?
Non lo so mai a cosa stai pensando. Pensa.
Lui non risponde. Che potrebbe dire se parlasse: che il loro rapporto si è bloccato nel vicolo dei topi, dove i morti hanno perso le ossa?
Meglio non comunicare quando non si può comunicare.
E così si continua con la routine: l’acqua calda alle dieci per il bagno, se piove l’automobile chiusa, una partita a scacchi, premendosi gli occhi senza palpebre – ossia perennemente sbarrati dallo sbigottimento – in attesa che qualcuno bussi alla porta a liberarli dalla prigione dell’incomunicabilità.
Dall’altra parte, nel pub, ci sono Lil e la sua amica, che non ha peli sulla lingua e vuole che Lil, adesso che il marito torna dalla guerra, si rimetta in ghingheri per lui: e fatti togliere tutti quei denti marci e mettiti una bella dentiera! Non ti ha dato forse i soldi per farlo?
Più che una coppia, in questo passaggio, dove si consuma un autentico dramma, c’è un trio: c’è un lui che è Albert e che, essendo stato sotto le armi, ha tutto il diritto di divertirsi con la moglie; c’è Lil, che è l’oggetto del divertimento del maschio e che a trentun anni sembra già una mummia: ma non è colpa sua, son quelle pillole che ha preso per abortire (Ne aveva già avuti cinque, ed era quasi morta per il piccolo George).
Infine c’è l’amica della coppia, che dispensa consigli e sentenze: cosa ti sei sposata a fare se non vuoi bambini?
Qui hai colto bene, mamma: là una coppia sterile e disgregata, qui una coppia dove la fertilità distrugge; là una donna nevrotica, qui una vittima della sua stessa classe sociale che la svilisce a ruolo di procreatrice e dove la maternità (intesa come un sesso meccanico) l’annienta.
Anche tu hai avuto sette figli, ma ci hai sempre detto che non ci si sposa solo per sfornare bambini come se fossero conigli.
III Il sermone del fuoco
Mi scrivi che questa è la parte più caotica di tutte. C’è tanto dentro e ti sei persa. Cercavi più riferimenti al testo del Budda, ma l’incontro tra l’ascetismo orientale e quello occidentale, rappresentato da sant’Agostino, c’è solo a conclusione della sezione ed è qui che deve stare. Ora ti spiego perché.
Finalmente appare il Re pescatore del mio mito, quello dalla cui guarigione dipende la salvezza della terra.
Pesca e canta lungo il Tamigi: un fiume inquinato dall’olio e dal catrame, che trascina bottiglie vuote, carte da cibo, fazzoletti di seta (usati come preservativi di lusso), scatole di cartoni e mozziconi di sigarette: testimonianze delle serate estive degli eredi e bighelloni dei direttori di banca della City e delle loro amichette, le “ninfe del fiume”.
Il Re ferito pesca in un canale tetro, dietro il gasometro, in una sera d’inverno, in mezzo a una natura calpestata dall’uomo.
Un topo (ossa e topi ritornano spesso nei miei versi) si insinua tra la vegetazione. Il pescatore medita sul naufragio del re suo fratello e sulla morte del re suo padre. Un destino di desolazione li accumuna fino a che Parsifal non verrà a salvarlo. Se mai verrà.
Suoni di corni e motori alle sue spalle: è la macchina di Mr. Sweeney, un personaggio rozzo e brutale, che sta portando una prostituta in un bordello.
E qui c’è un filo quasi trasparente tra il corno dell’automobile e quello di Atteone, il cacciatore trasformato in cervo dalla dea Artemide e sbranato dai suoi cani, per aver osato spiare la bellezza della divinità nuda mentre faceva il bagno.
Se nel mito la dea aveva voluto proteggere, sebbene crudelmente, l’esclusività del suo corpo nudo, nella terra desolata la nudità si vende e si compra.
Una canzonetta popolare è accostata ironicamente a un verso di Verlaine, tratto da un sonetto dedicato a Parsifal. Non è una scelta casuale: è questo il cavaliere che può salvare il re malato.
È poi la volta di un altro narratore di questa città irreale, che è Londra: uno che dice di essere stato avvicinato da un mercante turco di uva passa, mal rasato, di nome Mr. Eugenides, che parla un francese terribile e che, senza tergiversare, lo ha invitato a pranzo e poi a passare con lui un fine settimana in luoghi noti per essere punti di incontri segreti per omosessuali in cerca di sesso: libidine meccanica.
Ora, sempre nell’ora violetta dell’inverno londinese, entra in scena Tiresia, pulsando tra due vite, l’indovino reso cieco da Giunone perché ha svelato – ed era l’unico che potesse farlo, essendo stato sia maschio che femmina – che le donne avevano un godimento sessuale più intenso.
Osserva una scena desolata con gli occhi della mente e ne predice il resto.
Una dattilografa fa remissivamente sesso con un impiegato, un giovanotto foruncoloso, che aspetta a casa sua dopo l’ora del tè.
Lui è ardito ed è talmente vanitoso da non pretendere che ci sia un’intesa con la ragazza: scambia l’indifferenza di lei come una gradita accettazione del suo atto.
Il coito si consuma velocemente, in un modo animalesco per lui, che però le accorda un bacio finale di protezione. Potrebbe essere un modo per marcare un territorio in cui tornare.
La dattilografa è stata frigida e passiva. Non l’ha obbligata nessuno, ma forse aveva sperato che questa volta sarebbe stato più coinvolgente. Non c’è nessun risveglio per lei: la monotonia di giorni sempre uguali l’attende.
Lei si volta e si guarda allo specchio un momento,
Si rende conto appena che l’amante è uscito;
il suo cervello permette che un pensiero solo a metà formato
Trascorra: Bene, ora anche questo è fatto: lieta che sia finito.
Rimasta sola, mette un disco sul grammofono.
La melodia dalla sua finestra si riversa nella città e Tiresia considera il piacevole collante che è la musica, anche tra le chiacchiere e altri rumori, ovunque arrivi, tra i pescatori che riposano e dentro le mura della chiesa di Magna Martyr, che contiene uno splendore inesplicabile di bianco e oro ionici.
La musica accorda la disarmonia del mondo e dell’io. Riesce a dare una gioia inesplicabile. Tutta la bellezza è inesplicabile.
Una fievole speranza di armonia per l’indovino, che non è più il grande veggente che fu (quello che sedette presso Tebe, sotto le mura, e camminò tra i morti che più stanno in basso), declassato dal tempo a vedere, senza occhi, incontri squallidi tra ragazze che non sanno quello che vogliono e giovanotti pieni di sé.
Torniamo adesso al Tamigi, alle sue vele rosse, alle chiatte che sospingono tronchi che vanno alla deriva, oltre l’isola dei Cani.
Si ode il canto delle figlie del Reno (anche il Tamigi è un fiume):
Weialala leia
Wallala leialala
Noi scivoliamo nel tempo passato, nel XVI secolo, quando il Tamigi non era ancora inquinato, e con noi scivolano, su una barca di lusso, la regina Elisabetta e il suo amante Robert Dudley, Conte di Leicester.
Anche questo rapporto sarà infertile poiché la regina non rinuncerà mai al potere per l’amore.
La melodia di Wagner attraverso le parole delle tre figlie del Reno aveva ammonito che chi vuole il potere assoluto dell’anello d’oro deve rinunciare all’amore.
Weialala leia
Wallala leialala
Dopo essersi fatto rubare il talismano, le fanciulle non possono che piangere fino a che l’anello non verrà restituito al Reno. L’avidità ha prevalso sull’amore.
Le tre moderne figlie del Reno, in una Londra polverosa e percorsa dai tram, a turno, si raccontano.
Una ha subito violenze poi si è lasciata andare alla corrente della vita o al desiderio di qualche uomo.
L’altra ha abortito, ma non vuole cedere al rimorso.
L’ultima ha avuto un crollo mentale sulla spiaggia di Margate, nel Kent.
Si può resistere a tanto strazio di unghia rotte di mani sporche?
Ci vuole un fuoco per distruggere ogni orrore scaturito da passioni irragionevoli.
Oppure fuggire a questo orrore facendosi prendere da qualcosa di più grande di noi, che ci purifichi attraverso il fuoco.
Budda e Sant’Agostino si sono incontrati in questo punto del poema:
Ardere ardere ardere ardere
O Signore Tu mi cogli
O Signore Tu cogli
Bruciando.
IV La morte per acqua
Per te una è delle più belle poesie che io abbia mai scritto.
La caducità della vita ha il potere di afferrare all’istante, chiunque.
Ritroviamo Phlebas il Fenicio, quello della carta tirata fuori da Madame Sosostris: è morto da quindici giorni, spolpato dai vortici del mare. La Sibilla moderna aveva predetto la morte per acqua.
Non c’è proprio speranza se l’acqua, che dovrebbe rigenerare, purificare, dissetare, fertilizzare, porta la morte.
Phlebas il Fenicio, morto, da quindici giorni
Dimenticò il grido dei gabbiani, e il fondo gorgo del mare,
E il profitto e la perdita.
Una corrente sottomarina
Gli spolpò le ossa in sussurri. Come affiorava e affondava
Passò attraverso gli stadi della maturità e della giovinezza
Procedendo nel vortice.
Gentile o Giudeo
O tu che giri la ruota e guardi sopravvento,
Considera Phlebas, che un tempo fu bello, e alto come te.
V Ciò che disse il Tuono
L’attacco è fatto di rapidi passaggi dei momenti finali della vicenda umana di Cristo. Gli apostoli non l’hanno visto risorgere e sanno che anche loro moriranno. Cristo non è l’acqua che disseta per sempre.
Entriamo così nella sezione dell’aridità e dell’attesa dell’acqua.
Nel 1920 l’Inghilterra ha attraversato un lungo periodo di siccità che ci aveva lasciati deboli e disidratati.
Ma qui le rocce e la sterilità hanno una valenza simbolica.
Cristo è morto e non è risorto e anche i discepoli, alla fine, moriranno, non c’è resurrezione per nessuno.
Il paesaggio descritto è più infernale che mai. Rocce, deserto, sabbia e sudore asciutto.
Popolazioni inospitali intorno che ringhiano e sogghignano.
Mi scrivi che l’unica acqua di cui scrivo nel poema è inquinata oppure porta la morte, come a Phlebas, il marinaio fenicio.
Sono i seguaci di Cristo che, ormai abbandonati dal maestro, attraversano questi luoghi aridi e desolati.
Ma alla fine sono rimasti in due, sono i discepoli di Emmaus, che hanno, a tratti, l’impressione che qualcuno, incappucciato, gli cammini al fianco: non sanno se è un uomo oppure una donna.
Chi è il terzo che sempre ci cammina accanto?
Ma la secchezza del paesaggio che i due attraversano si può tradurre anche nel suo opposto: il gelo dell’Antartide.
Un esploratore che ha marciato in quei luoghi deserti ha raccontato della sindrome del terzo uomo, prodotta dallo sfinimento.
Rimane il dubbio che la terza persona del poema sia l’illusione ottica descritta da Ernest Shackleton oppure il Cristo risorto che poi si farà riconoscere dai discepoli di Emmaus cenando con loro.
Ma non c’è dubbio che la sequenza successiva introdotta dai versi:
Cos’è quel suono alto nell’aria
Quel mormorio di lamento materno
alluda ad altre guerre e dolori che si ripetono all’infinito.
C’è un sottile collegamento con i versi iniziali che richiamano la passione di Cristo.
La Grande guerra e la rivoluzione bolscevica hanno fatalmente danneggiato l’Europa.
Le orde incappucciate che sciamano su pianure infinite, inciampando nella terra screpolata sono gli atei e materialisti comunisti, una minaccia per i valori dell’Europa occidentale.
Ma ogni forma di civiltà, in questo momento caotico, è destinata a perire:
torri che crollano
Gerusalemme Atene Alessandria
Vienna Londra
Irreali.
Ti sto portando ora nella medievale Capella perigliosa, connessa ai cicli arturiani, dove per i cavalieri ci sono prove di coraggio da superare.
Torri capovolte nell’aria ma squillanti di campane e voci che cantano dalle cisterne vuote e dai pozzi secchi.
Tutto intorno si respira desolazione e morte.
Lancillotto nella cappella vi aveva trovato i fantasmi di trenta cavalieri che gli avevano sbarrato il cammino.
Dopo averli dispersi, al suo interno, trovò solo un cadavere a cui rubò la spada.
Ma la cappella della terra desolata non è così spaventosa come si poteva presagire: ci sono solo aride ossa che non fanno male a nessuno.
Nella terra desolata non c’è bisogno di eroi.
Solo un gallo si ergeva sulla trave del tetto.
Mi hai chiesto perché proprio il gallo. Perché annuncia il giorno, la pioggia e una possibilità di redenzione.
Il chicchirichì annuncia la luce di un lampo cui segue un’umida raffica apportatrice di pioggia.
Ma c’è anche un altro motivo: il gallo è legato alla passione di Cristo che ho raccontato all’inizio, al tradimento di Pietro e al suo ravvedimento.
Adesso siamo in India, dove il Gange è secco, patisce in attesa della pioggia, mentre le nuvole nere si raccolgono sopra l’Himalaya.
Nel silenzio parla il Tuono.
Un secco sterile tuono senza pioggia, solo parole in sanscrito: di saggezza.
Il tuono dice Datta: la generosità, quell’atto che, anche se nessuno lo ricorda, è quello per cui possiamo dire di essere esistiti.
Dayadhvam: la compassione.
Ho udito la chiave.
Pensando alla chiave ognuno conferma una prigione.
In modo ossimorico racconto due fatti in cui la pietà e la comprensione per gli altri è mancata: il conte Ugolino chiuso nella torre a morire di fame con i suoi figli e l’ingiusta uccisione di Coriolano, colpevole solo di aver voluto salvare sua madre.
Nella terra desolata siamo chiusi nella prigione della nostra incomprensione e incomunicabilità!
Damyata: la parola che meglio ho tradotto in immagine.
Vuol dire controllo e tu sai che io sono stato un velista valido:
la barca rispondeva
Lietamente alla mano esperta con la vela e con il remo
Il mare era calmo, anche il tuo cuore avrebbe corrisposto
Lietamente, invitato, battendo obbediente
Alle mani che controllano.
Nell’ultimo segmento inquadro il Re pescatore che siede sulla riva, con la pianura arida dietro di lui,
Riuscirò alla fine a porre ordine alle mie terre?
Nessuno lo ha salvato e senza la sua salvezza non ci sarà rigenerazione per la terra desolata.
È con questi frammenti che ha puntellato le sue rovine:
- una filastrocca per bambini: Il London Bridge sta cadendo sta cadendo sta cadendo (che poi non è da non prendere sul serio!!!)
- i versi di Dante che descrivono Arnaut Daniel, il poeta provenzale, che nel Purgatorio si nasconde nel fuoco che lo purifica dal suo peccato (nota il fuoco che ritorna, come nel sermone del Budda)
- dei versi latini che invocano una primavera che sia accolta con gioia (e non con un senso di forzatura sul letargo dell’umanità)
- un verso di un sonetto di Gerard de Nerval, El desdichado, Le Prince d’Aquitaine à la tour abolie. La torre, nella simbologia medievale, rappresenta l’ascesa a Dio, se è monca o in rovina…c’è disperazione.
La scelta di questi quattro frammenti mette insieme tanti fili del poema: la distruzione, il fuoco purificatore, la vera primavera dello spirito, la disperazione.
Forse Il Principe di Aquitania, la cui torre è spezzata, è un doppio del Re pescatore: inconsolabile, con il cuore malato, oppure è il mio alter ego.
Ma negli ultimi due versi sono io che parlo:
ebbene, se non c’è proprio niente da fare, tenetevi almeno le tre parole che disse il Tuono, altrimenti ci sarà la fine del mondo.
Vi accomodo io e vi darò quel che meritate, sono le parole di una tragedia spagnola del XVII secolo in cui il poeta protesta con il pubblico per averlo sottovalutato.
Con un po’ di ironia mi identifico con Hieronymo il pazzo che, per vendetta, voleva sconvolgere il suo pubblico.
Io non cerco vendetta ma con il mio poema ho voluto fare il poeta-profeta lanciando il mio assalto contro una società materialista, ignara del pericolo che incombe, priva di cultura e di valori etici.
Shantih, pace, ripetuta tre volte, è la formula conclusiva dei rituali sacri indiani.
Siamo arrivanti all’ultimo verso della Terra desolata.
Shantih Shantih Shantih
La parola pace è la stessa che usa San Paolo nella sua lettera ai Filippesi: E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù.
Ancora una volta la filosofia orientale si incontra con la tradizione cristiana.
Una pace che supera ogni intelligenza è inimmaginabile.
Il poema non ha il punto perché non ha un finale, né positivo né negativo. Dipende da noi, ascoltare il messaggio del Tuono.
Questo è tutto per adesso.
Ti voglio bene.
Tuo Tom
EPISTOLARIO DI T.S. ELIOT (1888-1965)
FINALMENTE UN SENTIERO PER PERCORRERE LA TERRA DESOLATA.
"Mi piace""Mi piace"
Se leggi tutto l’epistolario trovi la vita e la poetica di Eliot.
"Mi piace""Mi piace"