Leggenda privata di Michele Mari, 2017

IN CASA MIA, PERTANTO, SI CITAVANO LA FORTEZZA BASTIANI E DORA MARKUS COME FOSSERO LUOGHI E PERSONE DI FAMIGLIA: IL CHE NON HA FATTO BENE ALL’ANIMO SPUGNOSO DI MIA MADRE, FATTO APPOSTA PER IMBIBERSI DI OGNI DOLENZA DEL MONDO

Ed eccoci al terzo posto della classifica dei migliori libri del III millennio (che allegherò alla fine della recensione).

Trattasi di un libro assai gradevole, di agile lettura – e di sole 171 pagine (che meraviglia, si può pure rileggere!) – in cui lo scrittore ci racconta un’autobiografia dell’orrore dentro una cornice gotica, fatta di personaggi mostruosi, in cui però agiscono i personaggi reali (che però possono diventare anche mostruosi!): da ciò il titolo di leggenda, dove appunto la fantasia si intreccia con la realtà. Ma l’orrore sta soprattutto nella drammatica veridicità dei fatti narrati, cui il lettore si abitua a convivere attraverso l’apparizione dei mostri.

Fuggire dai piccoli orrori della vita – solitudine, palpitazioni, nevrosi: ecco, intanto, con questo trilogo ho già raccontato il grosso – fuggire dalla famiglia per essere ghermito dal demone della letteratura non è un grande affare: o meglio lo è sotto l’aspetto estetico-romanzesco, ma per il resto credetemi, cinghia per cinghia, urlo per urlo…

Mi viene da aggiungere che il demone della letteratura ha sempre fatto grandi miracoli.

Il racconto, corredato di fotografie e di note esplicative, si ferma all’adolescenza del giovane Mari – l’età adulta, per scelta, non viene raccontata – e si svolge prevalentemente nella villa dei nonni paterni sul lago Maggiore, nella casa dove si è reificata la sua infanzia, l’adolescenza, il sesso mancato e dunque il sesso più vero, la lettura e la scrittura, la misantropia e la nevrosi, l’arresto del tempo, il ripiegamento: la solitudine. Ed i fantasmi.

Quando lo scrittore preannuncia che sarà un romanzo dell’orrore, con orrore si intenderà qualcosa che a che fare molto da vicino con l’angoscia e anzi con la semplice tristezza, un romanzo triste/angosciato e dunque caratterizzato da una certa quota di divertimento e di virtuosismo.

Il divertimento è veramente assicurato dall’ironia con cui viene rielaborato l’orrore.

Il virtuosismo risiede nella lingua scelta: il mio lievito romanzesco è nella forma, non nei fatti, su questo punto le mie idee non potrebbero essere più chiare.

Utilizza infatti un lessico variegato: aulico e desueto (succhiarmi medulla e cerebra, non è chi nol vegga, appo per in confronto, a paragone, adulescentuli per adolescenti, preterisco per tralascio, locupletare al posto di arricchire, sodale per amico, confessione-offa, intendendo con il secondo termine un compenso o vantaggio immediato che si offre a una persona per placarne l’avidità, comprarne il silenzio o l’appoggio, parola che ho trovato in D’Annunzio), ma questi termini obsoleti li alterna ad altri più moderni e informali, talvolta ricorrendo a parole del dialetto lombardo e non rinunciando ad un lessico familiare come needle (dal film Panico a Niddle Park) che lui e sua sorella utilizzavano in tutte le situazioni in cui erano, appunto, appanicati.

I protagonisti principali, oltre al giovane Mari, sono suo padre Enzo, famoso grafico e designer, sua madre Gabriela, detta Iela, casalinga e anche lei con la mano d’oro della disegnatrice e infine i nonni, quelli materni, della buona borghesia lombarda, e quelli paterni, proletari, di origine pugliese, che mai in tutta la vita si incontreranno quasi a sottolineare, in quegli anni ideologici (tra il 1960 e il 1970) una spaccatura, che lo scrittore avverte anche su di sé, ma più su un piano esistenziale: mi sentivo dimidiato.

A completare il quadro, c’è la ragazza delle prime caste fantasie erotiche, che Mari ha visto per tre estati come cameriera in una trattoria sul lago e che poi non ha più rivisto e di cui non sa neanche il nome: Donatella, Ivana, Loretta potrebbero starle bene… La Lori, la mirabile visione. Agli occhi della nonna materna è volgare, così pienotta e con le gonne corte, ma per l’adolescente rimane una Dea anche se volgare.

La mia lavorante, popolana nonché volgarotta, ma la sua indiscutibile Dominatrice.

Più ci si umilia, più ci si alza.

Se una certa inferiorità (linguistica, intellettuale, culturale, sociale: antropologica) era fondamentale allo scandalo dell’umiliazione, funzionale a sua volta all’eccitazione, non si prestava allora l’inguardabile Serva a uno scandalo ancora più vero?

A suo supporto, Mari chiama il Don Chisciotte, che per favoleggiarsi una dama, si scelse una guardiana di porci.

La Lori, con i suoi zoccoli rossi, sciatta e pure un po’ miope, risveglia le pulsioni erotiche del giovanetto e lo trasporta fuori dal cerchio familiare – dove è chiuso dalla morsa del dovere, del distinguersi a tutti i costi per l’impegno, dall’equazione intelligenza-tristezza – fino a ritagliarsi uno spazio tutto suo in una sana e spensierata e leggera adorazione di un corpo: una conquista di libertà.

Mari si svela ai lettori senza reticenze ma su sollecitazione di creature fantastiche e un po’ mostruose – questa è appunto la cornice dell’autobiografia – le quali gli fanno espressa richiesta di scrivere di sé: sono quelli dell’Accademia della Sala del Camino (Quello che gorgoglia, Quello che Biascica…) e quelli dell’Accademia di sotto, i Ciechi della cantina (il Mucògeno, Quella dalle Orbite Vuote…). Creature inquietanti, non c’è dubbio e ce ne sono molte altre.

Mari ammette di aver scritto in un libro di lumache gonfie di sangue e del grande coniglio cieco e in un altro di aver trascritto le sue conversazioni con certi mostri.

Ma adesso sono i mostri che dettano legge: Dicci dei tic…

e danno giudizi: i tic sono piaciuti moltissimo, invece tutte queste notizie sulla professione dei genitori hanno incontrato fastidio e disapprovazione.

I mostri sono esigenti.

Ma perché la sua autobiografia non è andata oltre l’adolescenza?

Le risposte possono essere due: perché dopo non c’è stato nulla di letterariamente importante; oppure: perché dopo, a un certo punto, è successo qualcosa di tremendo da non poterne o volerne scrivere; o da essere stato rimosso: quando non si tratti semplicemente della mia fortificazione (e questa terza ragione è la più convincente).

La fortificazione non è interessante da raccontare, piuttosto la fragilità e la debolezza, ereditati dalla madre.

Lo scrittore si è fortificato nel momento in cui la sua strada, e non quella di grafico come avrebbe voluto il padre, gli si è aperta davanti.

Più che propendere per l’aurea decadente che si respirava nella famiglia materna (amici di Buzzati e imparentati, alla lontana, con Montale) Mari ha scelto la rivalsa e la lotta per emergere – come un personaggio di Jack London – ereditati dalla grinta del nonno Gino, sottoproletario e fascista (quando tutti o quasi lo erano e aveva anche votato Msi, tra l’orrore della sorella dello scrittore). Il nonno che con il fratellino è saltato su un treno e dalla Puglia è arrivato a Milano, dove ha lavorato sodo prima di avere una sua bottega di barbiere-calzolaio, è l’eroe di Michele Mari.

Nonno Gino aveva fatto studiare il padre dello scrittore con una severità anche manesca (ricorrendo alla cinghia) per fargli ottenere la borsa di studio che gli avrebbe aperto le porte dell’Accademia di Brera: uno su cinquecento ce la fa ed Enzo Mari era quell’uno.

Il culto per l’eccezionalità è uno degli incubi del bambino e poi adolescente Michele Mari, che ha sempre nutrito per il padre UN AMMIRATO TERRORE (l’unico che riusciva ad azzittirlo o lo faceva filare via era il nonno Gino, l’eroe dello scrittore).

Nonostante, e forse attraverso, questo tremore reverenziale nei confronti del padre, lo scrittore ci rivela i suoi problemi con l’enuresi, cioè la pipì nel letto fino a sedici anni, e la stranezza del suo pisello, sofferente di fimosi, ossia, come diligentemente spiega nella nota: lieve malformazione per cui il prepuzio, difettando di diametro e di elasticità, non si allarga a sufficienza acchè il glande fuoriesca: o acchè, fuoriuscito, rientri perdurando l’erezione.

Ci sono voluti due interventi chirurgici per completare la circoncisione e, alla fine, l’adolescente non è stato risparmiato dall’infierire del secondo chirurgo: Ma benedetto ragazzo perché hai aspettato così tanto? E con le ragazze come hai fatto?

In quella occasione il nostro Michele, con il suo ostinato mutismo, ha dovuto ammettere di non essersi mai fatto una sega né di aver avuto rapporti con una ragazza.

La cadenza ironica dello scrittore elimina ogni forma di autocompatimento.

Mari ci racconta così come è stato concepito: nelle aule di Brera, tra una natura morta e lo studio di un triglifo, suo padre a un banco e sua madre più in là.

Fase 1) prurito (i pruriti, gli aveva confidato suo padre, sono un ostacolo all’attività del cervello); fase 2) abbassamento; fase 3) raptus-zompo; fase 4) l’unica che veramente contasse, tornare al lavoro, sgombra la mente e affilata.

In inverno nasce lo scrittore (ripete almeno undici volte di essere nato in inverno).

Suo padre e sua madre erano fatti l’uno per l’altra?

Sembra di no, se poi lei lo ha lasciato, proprio nel momento in cui lui si affermava sempre di più e lei andava sempre più giù e viveva con i due figli in povertà, non osando tornare dai genitori borghesi dopo aver scelto un comunista, figlio di terroni e senza soldi.

Sua madre ha fatto la sua rivoluzione ma l’ha pagata con l’infelicità: difficile convivere con l’intransigenza di Enzo Mari, con la sua autorità e autorevolezza. Le vieta persino il bacino della buonanotte al piccolo Michele (non sia mai che il bambino diventi un “culattina”!). Sua madre non si oppone, ma approfitta della distrazione del marito per scivolare nella stanza del figlio e imprimergli sulla fronte un velocissimo e trasvolante bacio, che, ahimè, trasmette al bimbo un senso di angoscia e di colpa.

Se sua madre non lo difende mai, è lui che deve difenderla (ma sua madre è davvero un’aliena? Di giorno l’ultracorpo triste, di sera l’ultracorpo sorridente, nei sogni l’ultracorpo che urla…).

Se il padre è un genio da riverire e da temere, al limite della sopportabilità, forse insopportabile, la madre, da compatire, succhia tutta la tristezza della vita e non ci trova niente di cui ridere (e tanto più sei intelligente tanto più sei triste). Lei sì che, votata al dolore cosmico, si pasce nel male di vivere del lontanissimo parente. E dire che da ragazza con Bonatti e Buzzati si arrampicava sulle cime: agile come una gazzella. Piena di coraggio.

A parere di Michele Mari, l’amicizia con lo scrittore de Il deserto dei Tartari ha lasciato a sua madre un filtro di malinconia con cui guardare le cose, e certo bene non le ha fatto, se poi nel bar Jamaica (il locale che frequentavano gli artisti che gravitavano intorno all’Accademia di Brera) si è andata a scontrare con il suo futuro marito, che era l’essere meno metafisico che fosse esistito (era invece concreto, pratico, sicuro delle sue idee e quasi ossessivo e ossessionante) e che considerava la letteratura in quanto tale un’assoluta perdita di tempo, una forma di titillamento molto ma molto masturbatorio, non poco decadente, anche… fradicio di ridondanza, lontanissimo dall’algebra dell’essenziale, un lusso di cui il Mondo Liberato avrebbe presto fatto a meno.

Una volta diventato ricco e famoso, Enzo Mari era stato finalmente avvicinato dal nonno materno (il quale non poteva che disapprovare che la figlia avesse lasciato suo genero proprio nel momento del successo) e una volta aveva portato con sé anche Buzzati. Pensando di far colpo sull’artista, lo scrittore accennò subito alle scalate fatte con la sua ex moglie, la quale, però, un po’ per pudore, un po’ perché a suo marito non gli sarebbe potuto interessare di meno, non gliene aveva mai parlato. Quando stavano andando via, Buzzati, certo spiazzato dalla freddezza del suo interlocutore, aveva detto al nonno di Mari: – Ma sei sicuro che stiamo parlando della stessa Iela?

Il commento al racconto di questo episodio esilarante è: Ecco, anche qui come orrore non si scherza, mi pare.

E l’orrore non finisce qui.

Una notte lui e sua sorella, dopo aver sentito i genitori litigare e tintinnare i vetri e, infine, piombare il silenzio, quando suo padre e sua madre sono usciti, si alzano per capire la ragione di tanto baccano e, in mezzo alle schegge, Michele trova la scarpa della madre colma di sangue: abbondante, come in una salsiera. Ragguaglia dell’accaduto la sorellina, ritornano a letto perplessi e poi si addormentano.

Insomma questo è un libro che non si può raccontare ma solo leggere perché sono tanti i risvolti eufemistici delle situazioni più drammatiche.

La Velia! Come rimarrà impresso questo personaggio!

La domestica dei nonni materni, grondante lordura da ogni parte del corpo, la trasmetteva anche agli oggetti toccati. Bisognava mangiare senza pensare alle mani che avevano cucinato i cibi.

Se la superstizione onomastica è un antico tratto della famiglia dello scrittore, lui può vantarsi di avere il nome di un arcangelo e anche un secondo nome, Danilo, che ha scoperto di avere nel 1965, quando aveva dieci anni: un nome per entrare nella vita adulta, per difendersi da certi demoni (il significato è “Dio è il mio giudice”), ma da non rivelare a nessuno.

E poi ce ne sarebbe un terzo: Gheri.

Sì, Gheri. Ovvero gheriglio-cervello?

Ma no, Gheri è il diminutivo di Margherita.

Così con l’apparizione di questa creatura sorprendente e scintillante, Michele Mari conclude la sua leggenda privata. E non dirò chi è lei.

Allego la lista.

Le migliori opere di narrativa italiana degli ultimi vent’anni?

Canone dell’Indiscreto 2000-2019.

Ecco i titoli votati, in ordine di punteggio (l’elenco completo è disponibile su L’indiscreto):

1 Walter Siti, Troppi paradisi
2 Giorgio Vasta, Il tempo materiale
3 Michele Mari, Leggenda privata
4 Laura Pugno, Sirene
5 Francesco Pecoraro, La vita in tempo di pace
6 Antonio Moresco, Canti del caos
7 Claudia Durastanti, La straniera
8 Filippo Tuena, Ultimo Parallelo
9 Vitaliano Trevisan, Works
10 Elena Ferrante, L’amica geniale
11 Helena Janeczek, Le rondini di Montecassino
12 Veronica Raimo, Miden
13 Domenico Starnone, Lacci
14 Edoardo Albinati, La scuola cattolica
15 Giorgio Falco, L’ubicazione del bene
16 Roberto Saviano,Gomorra
17 Daniele Del Giudice, I racconti
18 Serena Vitale, Il defunto odiava i pettegolezzi
19 Valeria Parrella, Mosca più balena
20 Vanni Santoni, Personaggi precari
21 Umberto Eco, Baudolino
22 Fleur Jaeggy, Proleterka
23 Luca Rastello, Piove all’insù
24 Valerio Magrelli, Geologia di un padre
25 Davide Orecchio, Città distrutte
26 Giuseppe Genna, Assalto a un tempo devastato e vile
27 Aldo Busi, El especialista de Barcelona
28 Teresa Ciabatti, La più amata
29 Michele Mari, Verderame
30 Melania G. Mazzucco,Vita
31 Tommaso Pincio, Un amore dell’altro mondo
32 Emanuele Trevi, Qualcosa di scritto
33 Sandro Veronesi, Caos calmo

6 commenti Aggiungi il tuo

  1. Alessandra ha detto:

    Questo romanzo autobiografico non l’ho letto, ma riconosco i temi e le ossessioni tipiche dell’autore, che a quanto pare emergono, bene o male, da tutti i suoi scritti. Eh sì, quando arriverai al n.29 della lista, ti troverai di fronte ad una faccenda misteriosissima e ricca di metafore, tutta da decifrare e ricostruire, dove tra le immagini più inquietanti spicca il Grande Coniglio e una bella schiera di lumache grassocce, senza guscio e rosso sangue… Virtuosismo letterario a iosa. questo è poco ma sicuro.

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    1. Silvia Lo Giudice ha detto:

      Sì, è vero, Verderame è il n. 29 (ne fa un’autocitazione anche nella Leggenda Privata), ma non so se lo leggerò: questo mi è piaciuto molto perché parlava di sé e della sua famiglia con quello stile particolare e con uscite esilaranti. Mi piacciono molto le storie familiari.
      Devo dire che questa lista per ora mi ha stancata. Mi manca solo di recensire il n. 14 (ho trovato tutti questi libri in biblioteca e, non essendoci il n. 4 e tanti altri dopo, sono passata avanti). Penso di tornare all’ordine alfabetico degli scrittori italiani (dovrei essere arrivata alla P, ma forse ho lasciato qualche lettera indietro) oppure di rileggere qualche classico, sempre italiano. La lista è stata utile per capire come si sta orientando la narrativa contemporanea. Ma i classici, italiani e stranieri, sono sempre i classici!
      Forse leggerò Verga, i bellissimi Malavoglia e Mastro Don Gesualdo?
      Oppure La Coscienza di Zeno?
      Magari leggerò tutt’altro, affidandomi all’istinto e al caso. Ti auguro una serena giornata e ti ringrazio di essere passata.

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  2. Alessandra ha detto:

    Ti capisco benissimo. Ogni volta che tento di impormi degli schemi, puntualmente fallisco… Quindi ci ho rinunciato, e adesso cerco di lasciare più spazio all’istinto. Nei mesi scorsi, tra le altre cose, ho proprio riletto La coscienza di Zeno, di cui ricordavo pochi aspetti. Bellissimo, come tutti quei classici che non tramontano mai…

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  3. Maria Teresa Anastasi ha detto:

    Le tue recensioni sono sempre molto interessanti, vivide. Non ho letto questo libro – ultimamente non leggo molto , sono presa dalla vita pratica e un po’ mi dispiace – sembra bello dal tuo racconto ma anche un po’ difficile per lo stile in cui è scritto, un misto di linguaggio aulico e moderno.

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    1. Silvia Lo Giudice ha detto:

      Grazie prof di visitare ogni tanto il mio blog

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